Felicità vs Ben-essere
- Pubblicato in Gestione risorse umane, Strumenti per il mio lavoro
- Scritto da Corrado Cingolani
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La sintesi della collaborazione cinematografica, anno 2000, tra Samuele Bersani e il trio Aldo/Giovanni/Giacomo, sta nel titolo del film e nell’omonima colonna sonora: “Chiedimi se sono felice”.
“Felicità
improvvisa vertigine
illusione ottica
occasione da prendere……”
Leggendo il testo della canzone si ha questa visione, se leggessimo invece il Dizionario Garzanti, apprenderemmo che la felicità è:
“lo stato d’animo (emozione) positivo di chi ritiene soddisfatti tutti i propri desideri”.
Credetemi, non è il sole del periodo feriale ad avermi dato alla testa, piuttosto la lettura di un’interessante riflessione ne “R2 – La Repubblica” a pag. 30, del 5 agosto u.s..
Sicuramente in controtendenza, l’articolo denuncia come le aziende vedono il “capitale umano” o meglio la felicità del capitale umano, quale fonte di profitto, determinato dall’equazione
felicità = produttività
Prendendo spunto dal saggio recentemente pubblicato dal sociologo inglese William Davies – (The Happiness Industry: how the government and big business sold us well-being), viene sottolineata la tendenza di aziende leaders, di investire in corsi motivazionali, attività ricreative e welfare in generale, per rendere i dipendenti felici, e guai a chi non si mostra entusiasta di tali iniziative, tanto che l’AD di Zappos – Tony Hsieh – invita le aziende ad identificare il 10% degli impiegati meno propensi a tali metodologie gestionali e licenziarli, per trasformare il restante 90% in supermotivati (anni orsono, si citava un “tizio” che soleva dire “punirne uno per educarne cento” e addirittura la percentuale dei puniti era inferiore!!!).
Anche se gli studi in materia (Università Warwick – 2008) rilevano che la felicità dei dipendenti, considerata come leva di profitto, può aumentare la produttività del 12%, riducendo l’assenteismo, l’equazione è comunque controversa poiché la “simulazione” della felicità, per accondiscendenza e quieto vivere, a lungo andare potrebbe provocare depressione, problemi cardiovascolari (Ricerche dello psicologo tedesco D. Zapf).
Altra dissonanza è rilevata tra la posizione degli studiosi di organizzazione che puntano sull’apporto positivo del binomio felicità/produttività, rispetto ai macro-economisti che invece auspicano la flessibilità, la quale genera invece nel lavoratore poco coinvolgimento nel contesto aziendale, tanto che la “precarizzazione” del lavoro è visto quale elemento, insieme alla mancanza di investimenti in ricerca, dell’andamento piatto della produttività degli ultimi venti anni.
Ulteriore elemento criticato, è l’impatto che le grandi aziende cercano di avere sulla vita extralavorativa dei dipendenti, come nel caso della società SCANIA, dove gli HR managers, dichiarano che l’interesse per il dipendente non finisce quando lasciano il lavoro, ma cercano di aiutarlo a vivere in modo sano.
Questa attenzione è tanto più efficace quanto più il contorno tra vita lavorativa e vita privata sia sfumato, così come afferma il “guru” Ricardo Sambler – far sembrare il lavoro aziendale un piacevole intrattenimento-.
A volte, però, gli esempi organizzativi sembrano più delle belle vetrine, dove mettere in mostra l’applicazione di innovativi sistemi, presi in prestito dal mondo americano, piuttosto che esempi virtuosi di organizzazione del lavoro e della vita sociale basati sul concetto di “comunità” dove, sì l’efficienza ma insieme a bellezza e democrazia concorrono ad una cultura del lavoro “politicamente solidale” così come riuscì a realizzare Adriano Olivetti.
Dov’è la verità? Salomonicamente, nel mezzo?
Innanzi tutto più che alla “felicità” preferisco riferirmi al concetto di ben-essere, che trovo più dinamico e caratterizzato da
“un’adeguata armonia tra capacità, esigenze ed aspettative di un individuo ed esigenze, opportunità ambientali”
e pertanto coniuga lo star bene individuale al contesto, all’ambiente in cui si vive e si lavora.
In secondo luogo sono convinto che, seppur sempre di risorse si tratti, quando si gestiscono persone è necessario che, sia il terreno di confronto sia le regole, formali e/o informali, siano chiari e conosciuti da tutti, perché è fondamentale che si impegni in una “lotta per” raggiungere risultati e non in una “lotta contro”, tra management e resto dei dipendenti.
E’ pur vero che oramai, si sono sviluppati modelli di partecipazione e condivisione delle responsabilità e che le organizzazioni sono caratterizzate da legami più leggeri e meno inclusivi, ma sarà fondamentale che le belle parole non restino solo efficaci slogan, ma siano invece didascalie che descriva la cultura aziendale, sulla cui base ripensare i programmi di sviluppo delle persone, per coinvolgerle e rafforzarne le competenze distintive, permettendo di ottenere un ambiente di lavoro ecologico, dove si possa raggiungere la massima produttività nel rispetto della dignità delle persone.
Dirigere questa dimensione aziendale, significa avere la capacità di saper ben bilanciare la spinta al coinvolgimento delle persone e il rispetto della loro individualità, permettendo così che quest’ultima possa essere espressa nella direzione della Vision aziendale.
Non vorrei che ci trovassimo, altrimenti, tutti felici di partecipare alle celeberrime iniziative aziendali, nelle quali era coinvolto il mitico Ragionier Fanto(cc)i.